7 dic 2014

Berlinguer si sta rivoltando nella tomba

Sembra una scherzo della storia: dopo avere rivendicato per anni la diversità della sinistra rispetto alla Dc, l'ex Pci ora Partito democratico, scopre di avere allevato nella capitale una classe dirigente da fare impallidire il vecchio Sbardella, detto «lo squalo».

Di: | venerdì 5 dicembre 2014
La questione morale dopo trent'anni.
ROMA - Sarà Matteo Orfini, l’uomo della provvidenza? Chiamato da Matteo Renzi ad estirpare il verminaio di Mafia Capitale, sarà in grado di traghettare nuovamente la malandata navicella del PD romano? Presidente del partito nazionale. Volto ascetico. Ex giovane turco della covata dalemiana, solo qualche mese fa, era stato fulminato lungo la via di Damasco. E passato, armi e bagagli, alle dipendenze del Granduca di Toscana. Che, oggi, ha ricambiato il favore. Rinnovamento nella continuità: come si diceva una volta a proposito delle vecchie vicende comuniste.
IL PD CHIUDE LA STALLA - Operazione ardita quella richiesta al nuovo commissario. Le metamorfosi del vecchio PCI non finisco di stupire. Una volta era il PCI. Poi venne il PDS. Quindi il DS ed infine il PD. Ma il suo gruppo dirigente, tanto a livello locale che nazionale, non ha seguito la stessa evoluzione. E’ rimasto sempre lo stesso. Immobile nei secoli.
E IN PRINCIPIO FU BETTINI - In tutti questi anni, il capo indiscusso dell’organizzazione capitolina è
stato sempre Goffredo Bettini. Fu il king maker di Rutelli fin dal lontano 1993. Quindi sposò l’elezione di Walter Veltroni. Ed ancora l’artefice della vittoria, prima alle primarie quindi in Campidoglio, di Ignazio Marino. Ma la sua carriera politica è ancora più antica. E’, infatti, dagli anni ’80 che guida i comunisti prima ed i post dopo. Dapprima come segretario della federazione, quindi in posizioni più defilate, ma sempre al centro della vita di quell’organizzazione, in vesti varie: consigliere comunale, capogruppo in Campidoglio per conto del PDS, assessore del Comune sotto Rutelli sindaco, presidente dell’Auditorium, consigliere regionale dei DS, deputato, senatore, coordinatore della segreteria nazionale del PD di Walter Veltroni ed ora deputato europeo. Quasi quarant’anni spesi in nome delle ragioni della politica, in una miscela di sinistrismo ed ecumenismo.
CHI PAGA? PANTALONE - Tradizione solida quella degli allievi di Antonio Gramsci. La gestione del Comune iniziò nel 1976, con Giulio Carlo Argan. In questi ultimi quarant’anni il potere, salvo un breve intervallo di una decina d’anni (tra il 1985 ed il 1993 e poi con Alemanno), è stato rigorosamente custodito dai sacerdoti di quell’organizzazione. Mentre i debiti contratti dall’Amministrazione crescevano a dismisura. Al punto che ancora oggi essi ammontano a decine di miliardi, che lo Stato centrale è costretto a ripianare. Rivalendosi poi sul semplice cittadino con una pressione fiscale, a livello locale, che è tra le più alte in tutto il territorio nazionale.
COOPERATIVE BIANCHE, ROSSE E NERE - Un periodo così lungo che ha permesso loro di intessere rapporti sempre più stretti con la società romana in un misto di populismo – il grande tema delle periferie – e di affarismo. In cui le cooperative, più che il sindacato, fungevano da ultima cinghia di trasmissione. Come dimostra la continua osmosi che si è verificata tra dirigenti delle stesse coop e quadri di partito. Non sorprende quindi che al centro della vicenda Mafia Capitale, sia proprio la cooperativa "29 giugno" di Salvatore Buzzi. Che era anche, secondo quanto ha detto Gianni Alemanno, il pivot della Lega Nazionale per il comparto del sociale. Il che spiega l’imbarazzo del Ministro Giuliano Poletti: colpevole non tanto di aver partecipato alla famosa cena per festeggiare i brillanti risultati di quell’organizzazione. Ma per "culpa in vigilando", avendo consentito ad un ex omicida, quale era lo stesso Buzzi, di svolgere un ruolo istituzionale così importante. Va bene, infatti, la redenzione. Sempre ch’essa di accompagni ad un pentimento effettivo. Soprattutto dimostrabile.
UN GIOVANE TURCO ALLE PRESE CON IL CALIFFATO ROMANO - Questo è, quindi, il quadro con cui Orfini dovrà fare i conti. Ma questa volta non basterà limitarsi a cambiare, ancora una volta, il nome. Dovrà stanare il marcio. Quello che è emerso e quello che, ancora, non si vede. Ma soprattutto dovrà dimostrare agli ignari romani che esistono le risorse, intellettuali e morali, per voltare pagina. Problemi giganteschi. Non è solo in discussione la caratura di quell’organizzazione. Le sue pratiche oscure. Quel riempirsi la bocca del tema della solidarietà, per poi passare alla cassa e introitare tangenti. Dovrà risolvere il problema di un’inefficienza gestionale, a proposito del Comune, che ha raggiunto vertici da capogiro. Strade dissestate, sporcizia in ogni luogo, topi, traffico impazzito. E più di 30 mila dipendenti, molti dei quali imboscati nelle società fantasma delle municipalizzate. A far cosa non si capisce. Basta leggere l’inchiesta dell’Espresso di solo qualche giorni fa.
UN MARZIANO MUTO, SORDO E CIECO - Ignazio Marino non speri di cavarsela, adducendo il pretesto di una congiura dei cattivi, contro la sua giunta. Sono piani diversi, seppure intrecciati. Alla base del degrado romano sono quei quarant’anni di potere gestito senza soluzioni di continuità. Con un apparato amministrativo selezionato per gli oscuri interessi di partito. Una tecnostruttura potente e funzionale in grado di far fallire ogni reale progetto di cambiamento. A tutto ciò si dovrà porre rimedio. Senza illudersi di poter richiamare in servizio quel gattopardo che Pierluigi Bersani voleva smacchiare, durante la campagna elettorale. Non c’è più tempo. Game is over.

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